L'ignoranza è forza
venerdì 19 giugno 2015
mercoledì 3 dicembre 2014
giovedì 20 novembre 2014
Hegel: Il destino storico-politico del popolo ebraico
La figura di Abramo diventa, per Hegel, paradigma e figura dell’intero
suo popolo. I tratti
caratteristici del grande patriarca si rifrangeranno su tutta la storia
del popolo ebraico che
risulterà caratterizzata dalla sua stessa snaturalizzazione desertica,
dalla sua stessa radicale
inimicizia col mondo.
Questo rapporto strutturale tra gli Ebrei e il deserto verrà confermato
non solo dalla grande
prova dell’esodo con la sua traversata, ma anche paradossalmente dalla
stabilizzazione
definitiva del popolo di Israele nella terra di Canaan. Come alla
precedente vita stanziale in
Egitto gli Ebrei avevano preferito il rischio e il passaggio attraverso
un nomadismo
quarantennale, così adesso, definitivamente stabilitisi nella terra
promessa, il rapporto col
deserto si farà sentire come tratto essenziale e ineliminabile della
loro relazione col mondo
e del loro destino storico-politico
Hegel: Naturalizzazione e snaturalizzazione nel destino del popolo ebraico
La stessa vertiginosa dialettica tra naturalizzazione e
snaturalizzazione possiamo trovarla
nella lunga splendida descrizione della figura di Abramo che costituisce
il fulcro e il cuore
del capitolo sul giudaismo. L’intera vita di Abramo viene caratterizzata
attraverso la sua
separazione dalla terra natale, attraverso il suo deliberato
sradicamento. Abramo, fin
dall’inizio, rifiuta di affidarsi, in amicizia, alla natura che lo
circonda.” Il primo atto con cui
Abramo diviene capostipite di una nazione è una separazione che rompe i
legami della
convivenza e dell’amore, la totalità delle relazioni in cui egli ha
vissuto finora con gli omini e
con la natura “ (6) Tra egli e il mondo si è da sempre frapposta una
barriera, un’invalicabile
linea di frattura che nessun rapporto d’amore può superare. Abramo non
mette radici in
nessun posto perché mettere radici significherebbe affidarsi al terreno,
lasciarsi sostenere e
nutrire da esso; ma è proprio questa fiducia che Abramo, fin
dall’inizio, rifiuta. Il nutrimento
e la sicurezza della sua esistenza, non sono per lui doni naturali, per
cui rendere grazie alla
terra che li elargisce, ma conquiste di cui appropriarsi dopo una lunga
lotta con gli elementi
ostili; solo ciò che è strappato e conquistato può dirsi permanentemente
assicurato. Così la
storia di Abramo comincia con un radicale atto di separazione e di
rinuncia alla sua terra
natale, alla vita e alla felicità naturale che essa gli offre. Abramo si
fabbricherà da sé il suo
destino e tutto ciò che potrà dire suo non sarà un dono della natura ma
una conquista
dell’uomo. Il luogo della sua esistenza non potrà che essere il deserto,
il luogo cioè in cui
l’uomo, solo di fronte ad una smisurata immensità ostile non ha altri su
cui fare
affidamento che se stesso. Se per Noè l’ostilità verso la natura e il
tentativo di dominarla costituivano la reazione ad una catastrofe, per Abramo
si tratta di una scelta esplicita. Noè
è in qualche modo costretto a combattere l’immensità del diluvio, Abramo
sceglie di
combattere l’immensità del deserto. La sua lotta spietata e disperata
con la natura è l’altra
faccia del suo progetto di autodeterminazione radicale, il rischio, che
egli continuamente
corre di perdere ogni bene e la stessa vita, è il frutto della sua
convinzione che solo ciò che
è strappato con la forza o con l’astuzia sia veramente al sicuro da ogni
pericolo. Il prezzo
che Abramo dovrà pagare sarà la sua completa solitudine. Questa,
l’angoscia disperata di
un uomo di fronte al deserto a cui strappare anche la più piccola goccia
d’acqua potrà
essere superata e sopportata solo a prezzo di una sottomissione più
radicale e definitiva di
quella ad un qualunque essere naturale. Per non essere annientato dalla
sua solitudine,
infatti, Abramo non avrà altra scelta che sdoppiarla, duplicando la sua
solitudine di uomo di
fronte ad un immenso deserto nella maestosa e sublime solitudine di Dio
di fronte all’intero
mondo creato. Il suo monologo si trasforma in un dialogo terribile, la
sua purezza disperata
che non tollerava gratitudine e benevolenza verso un qualunque vivente
suo simile,
presente in carne o scolpito in pietra, offre incondizionata obbedienza
al suo omologo nel
regno dei cieli, ad un Dio altrettanto puro e altrettanto orgoglioso.”
In quanto Abramo non
poteva realizzare da sé la padronanza sul mondo, il solo rapporto per
lui possibile con il
mondo infinito e contrapposto, questo rimaneva in cessione al suo
ideale; e giacché la sua
divinità aveva alla sua radice il disprezzo per tutto il mondo, così
egli restava .l’unico
favorito.”(7) Come Abramo aveva rifiutato ogni rapporto di amicizia col
mondo nella
convinzione che solo di fronte al deserto l’uomo può afferrare se stesso
così il suo Dio
trasforma, distanziandola da sé, ogni cosa in sconfinata e turbinante
materia: tutto il
mondo ai suoi piedi diventa un
deserto. Disdegnando di servire ad un uomo o ad un idolo,
l’orgoglio di Abramo ha accettato di umiliarsi all’immenso orgoglio e
all’immensa gelosia del
suo Dio in cui, in fondo, egli non vede che uno specchio ingrandito del
suo stesso orgoglio e
della sua stessa gelosia.” Egli era un forestiero sulla terra( ) Uomo
indipendente e sciolto da
ogni legame statale o da ogni altro scopo, la cosa suprema era per lui
la sua esistenza, della
quale era spesso preoccupato, e doveva esserlo già per il suo stesso
modo del tutto privato
ed isolato; Abramo se ne stette assolutamente da sé, e dovette anche
avere un Dio tutto per sé che lo guidasse e lo sostenesse. “ (8) Servire il suo
Dio è un modo distorto di servire
se stesso. L’umiliarsi di Abramo rappresenta una forma mediata e
raffinata di esaltazione. Il
Dio di Abramo dimostra di essere abissalmente legato alle più intime
profondità del suo
essere, garantendogli l’unica eternità che egli può sperare, l’unica
immortalità a cui egli può
aspirare: quella della discendenza e della stirpe. Non quindi l’opera
immortale della mano,
ma l’oscura e ancestrale continuità del sangue, la nuda duplicazione
della sua esistenza
sono tutto ciò che Abramo può strappare alla morte. Nonostante tutto,
però, il volto di suo
figlio non è identico al suo: Isacco non è Abramo. Proprio per questo il
Dio di Abramo
pretenderà Isacco in olocausto; e Abramo potrà godere di suo figlio e
della sua discendenza
solo perché è stato disposto a sacrificarli al suo Dio e cioè, in ultima
istanza, alla pura
vuotezza del suo io. Hegel, infatti, sottintende che il massimo
dell’umiltà è identico al
massimo della superbia. Il sacrificio del bene più amato è
indissolubilmente distruzione e
riconferma di se stessi. Sul monte Tabor Isacco è sacrificato a suo
padre non meno che al
suo Dio.
La figura di Abramo e la radicale coerenza della sua vita e del suo
destino sono per Hegel la
chiave per comprendere la storia e il destino dell’intero popolo ebraico
e se, come abbiamo
visto, l’interpretazione del destino ebraico è essenziale per l’intera
architettura dello Spirito
del Cristianesimo non stupisce che, nello scolpire con tratti potenti il
destino del Patriarca, il
concetto di natura giochi un ruolo decisivo. Il rapporto di Abramo con
la natura è, come
abbiamo già visto, inestricabilmente intrecciato con il suo rapporto con
la divinità. La scelta
originaria di Abramo, da cui il suo destino e quello del suo popolo
ricevano un contrassegno
indelebile è, nello stesso tempo un atto di inimicizia per la natura e
di sottomissione a Dio. ”
Il mondo intero era per lui senz’altro l’opposto; e se non poteva
divenire un nulla, era
perché aveva il suo sostegno nel Dio ad esso estraneo, di cui niente
nella natura poteva
aver parte ma da cui tutto era dominato. Anche Abramo, l’altro termine
dell’opposizione
con il mondo che non avrebbe potuto essere nulla di più che l’opposto,
era tenuto in essere
da Dio; solo per mezzo di Dio entrava in relazione immediata con il
mondo, unico genere di
legame a lui possibile. Il suo ideale gli assoggettava il mondo e gli
offriva di esso tanto
quanto gli abbisognava, ponendolo verso il resto in uno stato di
sicurezza.”(9) La rottura di
ogni rapporto di amicizia col mondo, la solitudine di fronte ad una
natura ridotta a deserto
e la sottomissione a Dio, sono i tre aspetti indisgiungibili del destino
di Abramo.
Ora, è proprio rispetto a questo rapporto con la natura che, come nel
caso di Noè, si
manifestano i punti di frattura e le aporie intrinseche del discorso
hegeliano: punti di
frattura che si riverberano su tutta l’opera. Letta alla luce di queste
aporie sottili, che
attraversano l’intera trattazione, la figura di Abramo appare come
caratterizzata da una
paradossale e vertiginosa
coincidentia oppositorum che apre una faglia problematica sotto
tutte le distinzioni concettuali su cui è basata la struttura dello Spirito.
La scelta del nomadismo da parte del Patriarca è motivata dalla sua
diffidenza ontologica,
dal suo rifiuto di qualunque accordo, di qualunque scambio reciproco fra
uomo e natura;
tale scelta, tuttavia, comporta l’ esposizione alla natura stessa e alle
sue forze che si
converte inesorabilmente in una lotta selvaggia e furiosa con esse.
Rabdomante, orgoglioso
e instancabile, Abramo dipende dal deserto nello stesso momento in cui
ne forza e ne
profana la superficie sabbiosa. Rifiutando ogni reciprocità e ogni
rapporto paritario con la
natura, Abramo sarà alternativamente suo schiavo e suo profanatore. La
sua disperata
ricerca deve seguire la natura per dominarla e dominarla solo
lasciandosene trasportare. La
disperata astuzia del nomade, a volta a volta schiavo e padrone del
deserto che lo sovrasta,
è il risultato paradossale del radicale antinaturalismo di Abramo. Tale
paradossale
naturalizzazione-snaturalizzazione è approfondita e ulteriormente
complicata, da Hegel, in
uno dei frammenti coevi allo Spirito del giudaismo. Qui in un passo di
straordinaria densità
e complessità, Hegel scrive che ”Abramo era cresciuto nell’uniforme
godimento che non lo
chiamava a nessuna lotta con la natura indocile per dominarla e
soggiogarla, che non
richiedeva sforzo di acquisizione né lo seduceva ad una molteplicità
dispersiva. La
separazione dalla sua patria e dalla casa paterna lo spinse alla
riflessione, ma non alla
riflessione su se stesso, non alla ricerca in se stesso di una forza con
cui opporsi agli oggetti;
egli era bensì uscito dall’unità, ma con ciò aveva solo cambiato il
genere di vita, non si era
separato dal godimento. ” (10) In sostanza sembra che la dimensione
rifiutata da Abramo sia quella del lavoro regolato. Nel lavoro, infatti, si
configura uno scambio simmetrico e quindi in qualche modo armonico tra l’uomo e
il mondo. Nel lavoro l’uomo e la natura si
riconoscono in qualche modo come dotati di uguale forza ed è proprio per
questo che
Abramo ne rifiuta completamente la logica. Meglio essere schiavo o
nemico di una natura
ostile che il suo paziente elaboratore. Meglio l’astuzia disperata del
rabdomante che quella
paziente dell’artigiano.
Ora, questo rifiuto dello scambio armonico con la natura ha un suo
decisivo portato
teoretico. Il lavoro, proprio perché paziente tecnica della simmetria,
concerne sempre il
rapporto di un singolo uomo determinato con un singolo e altrettanto
determinato aspetto
della natura. Nel lavoro sono sempre in gioco da una parte e dall’altra
delle individualità
determinate. Il suo rifiuto da parte di Abramo implica, così, l’
universalizzazione tanto di se
stesso quanto del suo oggetto ”Sciolto dalla sua famiglia e dal suo
genere di vita, il suo
istinto di conservazione pervenne ora all’indeterminatezza; l’oggetto
del suo impulso alla
sicurezza dell’esistenza era la sua conservazione. Un oggetto più alto e
più grande non lo si
vede mai nella sua vita; la sua fede nella divinità era una ferma
fiducia nel permanere di
questa unità fra tutti i mutamenti della molteplicità delle situazioni”
(11) Rifiutando di essere costretto e disciplinato e di costringere e
disciplinare un singolo aspetto della natura, egli è messo di contro alla
immensità della natura stessa. Rifiutando di coltivare una terra
determinata, egli dovrà convivere con la vuota immensità del deserto.
Rifiutando di essere
ingabbiato nella svariata determinatezza dei molteplici scopi umani,
sarà messo di fronte
all’unico scopo della sua mera sopravvivenza biologica. In sintesi, il
rifiuto dell’amicizia con
la natura – che è sempre amicizia verso un aspetto determinato di essa –
porta Abramo ad
una naturalizzazione esasperata tanto di se stesso, ridotto a nuda vita preoccupata
della
sua semplice esistenza biologica,
quanto del suo oggetto, un immenso deserto in cui le
forze della natura si esprimono e si mostrano in tutta la loro furia
selvaggia. Come abbiamo
visto, questa snaturalizzazione-naturalizzazione costituisce la
genealogia segreta della
teologia di Abramo. Il suo Dio invisibile non è, infatti, altro che la
proiezione del suo vuoto
istinto di sopravvivenza, la purezza del suo spirito non è che la
proiezione distorta e
ingrandita della nuda vita dell’uomo solo di fronte al deserto. ” La sua
unità era la sicurezza,
la sua molteplicità erano le contrastanti situazioni di essa, il suo
Altissimo era l’unificazione
dell’una e delle altre.” (12) Il Dio di Abramo domina la materia ed è ad
essa radicalmente
estraneo come la natura è estranea e sottomessa all’istinto di
conservazione di Abramo. La
stessa esistenza dell’Altissimo si rivela strumento di questa
sopravvivenza. Dio permette ad
Abramo quel dominio sul mondo che le sue sole forze non gli avrebbero permesso;
su quel
mondo con cui, d’altra parte, egli non poteva realizzare un patto di
amicizia. Proiezione,
tuttavia, non significa identificazione. In cambio della garanzia del
dominio totale sul
mondo, il Dio di Abramo pretende dal suo protetto una sottomissione
altrettanto totale.
Signore della natura solo perché schiavo del suo Dio, Abramo abbandona
il mondo stanziale
del lavoro regolato e della terra coltivata per gettarsi nel vasto
deserto della signoria e della
servitù.
"Hegel", Lucio Battisti
Ricordo il suo bel nome: Hegel Tubinga
ed io avrei masticato
la sua tuta da ginnastica.
La storia va avanti ricordando i suoi anni trascorsi all'Università di
Tubinga. Il giovane Hegel si iscrive nel 1788 per studiarvi teologia, dividendo
il suo alloggio con Holderlin e Schelling, ossia rispettivamente uno dei più
grandi poeti della Germania e di un altrettanto grande filosofo. **
Il nome se lo prese in PRESTITO dai libri
e fu come copiare di nascosto,
fu come soffiare sul fuoco.
Come le celebri lezioni di Hegel, docente alla cattedra universitaria di
Berlino, raccolte e trascritte segretamente dai suoi ex allievi. Sta di fatto che
quella che noi chiamiamo Estetica è la rielaborazione di un discepolo ( Hotho )
basata sugli appunti raccolti dalla viva voce di Hegel, ma anche con delle
aggiunte ritenute necessarie per rendere leggibili quelle pagine. Il trattato
venne dato alle stampe da Gustav Hotho nel 1835, solo dopo la morte del grande
filosofo.
Cataste scolastiche: perché?
Quando tutto è perduto non resta che la cenere e l'amore;
e lei nel suo bel nome era una Jena.
Jena è ancor oggi una piccola città della Germania dell'Est, molto
bella e moderna, concentrata tipicamente per studenti universitari. Hegel per
ottenere l'abilitazione all'insegnamento, vi soggiornò per un lungo periodo,
dal 1801 al 1807. Fu qui, che conobbe l'unico amore della sua vita, Charlotte,
sua affittacamere e governante, dalla quale ebbe un figlio. Ma il drammatico
susseguirsi degli eventi politico-militari, fecero ben presto precipitare la
situazione: le inarrestabili guarnigioni napoleoniche avevano preso il cuore
della città, piegando il fiero orgoglio teutonico. Sotto il fuoco delle armi,
Hegel fu costretto ad abbandonare il tetto dell'amata per riparare altrove.
Chi di noi il governato e chi il governatore
son fatti che attengono alla storia.
Chi fosse la provincia e chi l'impero
"La Fenomenologia dello Spirito" è una tra le opere più
importanti nella storia della filosofia moderna classica. Nella descrizione del
processo che porta il soggetto verso la verità, Hegel illustra le due celebri
figure del servo e del padrone, secondo il quale, il padrone, una volta
raggiunto il suo scopo, non ha più bisogno di affermarsi, mentre lo schiavo
deve autoaffermarsi molto lentamente attraverso il proprio lavoro. Il padrone
però, non riuscirà più a fare a meno del servo, il quale costruisce gli oggetti
di cui egli ha bisogno. Dunque la subordinazione si rovescia. Il ribaltamento
dialettico hegeliano trova una sua perfetta sintesi nella teoria che anche il
padrone è servo e anche il servo è padrone. Ma in queste frasi sibilline di
Panella, sembra celarsi allo stesso tempo il triste epilogo: anche la Prussia
come tutta l'Europa dovette inchinarsi allo strapotere di Napoleone.
Erano gli esercizi obbligatori estetici,
le occhiate di traverso, e tu guardavi indietro;
c'eravamo capiti, capiti all'inverso.
Si torna ancora a citare l'opera di Hegel con le lezioni di estetica e
le varie visioni del mondo, ma nello stesso tempo della conoscenza sulla
funzione insopprimibile della contraddizione come legge di sviluppo della
realtà, e non come semplice negazione. La logica hegeliana si contrappone alla
logica tradizionale, fondata sul principio di identità e di non contraddizione.
Il grande filosofo mette in discussione il principio di non contraddizione tra
due poli., secondo il quale la possibilità che una cosa si muti in una cosa
diversa, risiede proprio all'interno della cosa stessa. All'interno delle cose
esiste questo rapporto di contraddizione tra lo yin e lo yang. Lo yin e lo yang
sono uniti ed al tempo stesso in lotta. La teoria hegeliana, per conseguire l'unità
di opposti, si basa sulla convinzione dell'uno bisognoso dell'altro per
realizzarsi: da ciò consegue che la realtà si attua in un processo dove termini
opposti si negano reciprocamente e si integrano in una nuova e più ricca
unità.*
Ci diventammo leciti per questo.
D'altronde, d'altro canto.
A volte essere nemici facilita.
Piacersi è così inutile.
Un "opposto", è tale in quanto non è solo se stesso, ma allo
stesso tempo altro: A è non A e viceversa. La conclusione di Hegel è che il
negativo è insieme anche postivo e tutte le cose sono in se stesse
contradditorie.**
Un bacio dai bei modi grossolani
sfuggì come uno schiaffo senza mani.
Un bacio non dura che un istante ma il suo significato è infinito.
Simbolicamente rappresenta un incontro tra gli opposti, e ci offre
l'opportunità di affrontare e riconoscere l'altro in quanto altro. E' l'inizio
del superamento conflittuale, in cui cominciamo la scoprire la natura profonda
e familiare del Sé, attraverso il confronto e il riconoscimento dell'Altro.*
Talmente presi ci si rese conto
d'essere un'allegoria soltanto quando
ci capitò di dire, indicando il soffitto col naso,
di dire "Noi due" e ci marmorizzammo.
Una metafora sulla difficoltà comunicativa tra due opposti - come qui si
potrebbe arguire - è sottintesa nell'opera di rinnovamento compiuta da Battisti
e Panella, e che il fruitore non sembra accettare assolutamente. Di fronte a
questo ermetismo il grosso del pubblico si è rifiutato di varcare la fatidica
soglia, non ha capito la portata innovativa introdotta dai due artisti. Davanti
a questo scoglio di non ricezione l'armonia degli opposti è venuta meno, non si
è verificato un' ideale sintonia tra le parti. I due poli si sono quindi
pietrificati, l'uno di fronte all'altro, come una allegorica visione di
stalattiti e stalagmiti negli anfratti di una grotta.
La corda tesa, amò l'arco
e la tempesta la schiuma,
il cuore amò se stesso,
ma noi non divagammo.
L'armonia è la sintesi perfetta indispensabile per creare l'unità nella
diversità e arrivare al nostro vero essere. Eraclito sosteneva: gli ignoranti
non sanno che ciò che è differente, concorda con noi stessi, dato che l'armonia
dei contrari equivale all'armonia dell'arco e della lira. La bellezza è come un
fulmine, la bellezza è tensione, è il mantenimento degli opposti. L'arco e la
lira sono stati visti da Eraclito come esempi di un equilibrio di forze che
proprio la loro opposizione tiene insieme: un arco funziona fin tanto che la
struttura data dal contrasto e dalla tensione degli opposti regge. Il pensiero di Hegel si accosta ad Eraclito per quanto riguarda la
visione dell’armonia dei contrari : non c'è tempesta senza quiete, non c'è vita
senza morte, non c'è bianco senza nero...
L'animo umano è nulla se non
una pietra da scalfire ricavando
i capelli e il suo bel piede.
Il carattere peculiare della filosofia hegeliana fu quello di affermare
la razionalità della storia. Mentre l'eredità del pensiero greco fu quella di
cogliere la ragione nella natura, Hegel ha cercato di riconoscere la stessa
razionalità anche nel campo della storia. La sua tesi fu che anche nella storia
dell'uomo, dove nell'apparente caos delle vicende umane, si manifesta una
razionalità analoga a quella presente nella natura.*
Era la collisione, il primo scontro epico,
perché non scritto ma cavalcato a pelo,
ed ognuno esigeva
la terra dell'altro,
le mani, la terra, la carne, il terreno.
Il rombo dei cannoni coincise con la stesura finale della Fenomenologia
dello Spirito. Il giorno prima della carneficina di Jena del 14 ottobre 1806 -
una battaglia epocale che costò un numero spaventoso di vite - Hegel si confida
privatamente, con una lettera indirizzata all'amico Niethammer, di aver visto
sfilare per le vie della città, quel Napoleone a cavallo, da lui considerato
come il "punto" in cui si concentra " l'anima del mondo"
che "s'irradia per il mondo e lo domina", ovvero colui che doveva
reggere il mondo, colui che rovesciando il vecchio, doveva regolare il nuovo,
promulgando costituzioni e codici legislativi. Ma si sbagliava.
Da lì a poco, il 10 dicembre 1812, in una gelida giornata d'inverno,
Napoleone giunse in slitta a Varsavia con 10.000 uomini dalle divise lacere ed
in preda alla fame. Era quello che rimaneva dei 600.000 dell'invincibile armata
e l'inizio della sua inarrestabile caduta. L'epopea di Napoleone segnò una
profonda inquietudine intellettuale in Europa. Non è dunque eccessivo dire che
ancor oggi la storiografia risente di quell'evento epocale e di quel mito. Il destino
però si diverte alle spalle degli uomini, è sempre in agguato, bastava un
niente per cambiare il corso della storia. Se Bonaparte non avesse intrapreso
la campagna di Russia, probabilmente il mondo oggi non sarebbe questo. Tutto
passa, passano le guerre, ritornano al trono monarchi e presidenti, passano le
mode, tutto cambia, tutto ... tranne la canzonetta ! Lei no, è rimasta immutata
nel corso dei secoli, sempre uguale a se stessa. Davanti alle spallate messe in
atto nella storia per demolire il suo mito presso gli uomini, ne è sempre
uscita indenne.
P.Panella: "Il pubblico si è si è ridotto a cercare un senso, cioè se l'hanno
derubato sul peso. C'è chi dice " mi hanno derubato perchè non capisco
".
Ma cosa vogliono capire ? Che la vita è difficile, che l'amore fa
soffrire ? Vogliono capire quello che sanno già. Sono cambiate tante cose,
governi tremendi ci sono passati attraverso ma la canzone è sempre rimasta, è
la costante, c'è sempre stata, rassicurante e uguale, piena di senso".
Hegel è la canzone. E' un pachiderma centrale, mediano, indeciso come la
canzone. Hegel è la parola, in lui appare l'apparenza, è già Don
Giovanni..."
F.Marchetti: Un attacco alla precarietà, al sonno intellettuale della curiosità
umana. Il caso Battisti-Panella è stato un esempio di rinuncia
comunicativa.Davanti all'ermetismo testuale, il pubblico ha compiuto una "
ritirata " dell'ascolto. Non ha oltrepassato lo scoglio iniziale e non è
andato oltre.**
Hegel: "Lineamenti di filosofia del diritto"
Nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto è presente la
famosa espressione “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è
razionale”.La filosofia come sapere epistemico non s'interessa di ciò che è
accidentale; essa va al cuore della realtà e trova - come ormai è chiarissimo -
soltanto l'Idea, il Pensiero.
G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione
Ciò che è razionale è reale,
Ciò che è reale è razionale.
Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa
persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell'universo
spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento o,
qualsiasi aspetto assuma, la coscienza soggettiva riguarda il presente come
cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, essa allora si ritrova nel vuoto;
e, poiché soltanto nel presente v'è realtà, essa è soltanto vanità. Se,
viceversa, l'idea passa per essere soltanto un'idea, una rappresentazione in
un'opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale
se non l'idea. Si tratta allora di riconoscere, nell'apparenza del temporaneo,
e del transitorio, la sostanza che è immanente e l'eterno che è attuale.
Invero, il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell'esistenza
esterna, si presenta in un'infinita ricchezza di forme, fenomeni e aspetti; e
circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si
sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e
per sentirlo appunto ancora palpitante nelle forme esterne. Ma i rapporti
infinitamente vari, che si formano in questa esteriorità con l'apparire
dell'essenza in essa, questo materiale infinito e la sua disciplina, non è
oggetto della filosofia [...].
Cosí, dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello
Stato, dev'essere null'altro, se non il tentativo d'intendere e presentare lo
Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restar
molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev'essere; l'ammaestramento
che può trovarsi in esso non può giungere a insegnare allo Stato come deve
essere, ma, piuttosto, in qual modo esso deve esser riconosciuto come universo
etico.
Del resto, per quel che si riferisce all'individuo, ciascuno è,
senz'altro, figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio tempo
appreso con il pensiero [...].
Questo, anche, costituisce il significato concreto di quel che sopra è
stato designato astrattamente come unità di forma e di contenuto; poiché la
forma, nella sua piú concreta significazione, è la ragione, quale conoscenza
che intende, e il contenuto è la ragione, quale essenza sostanziale della
realtà etica, come della realtà naturale; l'identità cosciente delle due è
l'idea filosofica. È una grande ostinatezza (ostinatezza che fa onore all'uomo)
non voler riconoscere nei sentimenti nulla che non sia giustificato col
pensiero: e questa ostinatezza è la caratteristica dei tempi moderni, oltre che
il principio proprio del Protestantesimo. Ciò che Lutero iniziò come credenza
nel sentimento e nella testimonianza dello spirito, è la cosa stessa che lo
spirito, ulteriormente maturato, s'è sforzato di comprendere nel concetto, e
cosí di emanciparsi nel presente e quindi di ritrovarsi in esso. Come è
divenuto detto celebre quello che una mezza filosofia allontana da Dio - la
medesima superficialità ripone la conoscenza in un'approssimazione alla verità
è ma che la vera filosofia conduce a Dio; cosí è lo stesso con lo Stato [...].
Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il
mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa
appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo
processo di formazione ed è bell'e fatta. Questo, che il concetto insegna, la
storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro
al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo
medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando
la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato,
e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere:
la nottola di Minerva inizia il suo VOLO sul far del crepuscolo.
(G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari,
1965, pagg. 14-17)
mercoledì 19 novembre 2014
Sogno di Jung
Era verso sera, e mi appariva un uomo anziano, in uniforme di ufficiale della dogana dell’Impero austriaco. Camminava piuttosto curvo, passandomi innanzi senza fare attenzione a me. Aveva un’espressione accigliata un po’ malinconica e annoiata. C’erano anche altre persone, e qualcuno m’informava che non era un uomo in carne e ossa, ma che si trattava dello spettro di un ufficiale di dogana morto anni prima. «È uno di quelli che non poterono morire veramente» mi dissero. Questa era la prima parte del sogno.Mi trovavo in una città italiana; era circa mezzogiorno, tra le dodici e l’una, e un sole feroce arroventava le strade strette. La città era costruita su colline, e mi faceva ricordare una particolare zona di Basilea, il Kohlenberg. Le stradine che scendono a valle, nel Birsigtal, attraverso la città, sono parzialmente costituite da rampe di scale. Nel sogno, una scala simile scendeva verso la Barfüsserplatz. La città era Basilea, eppure era anche una città italiana, un po’ simile a Bergamo. Si era d’estate; il sole raggiava allo zenit, e tutto era avvolto in una vivida luce. Mi venivano incontro molte persone, e vedevo che i negozi stavano chiudendo e la gente si avviava verso casa per il pranzo. In mezzo alla fiumana della folla camminava un cavaliere, completamente armato; saliva gli scalini, venendo dalla mia parte. Portava un elmo, del tipo detto a bacinella, con fenditure per gli occhi, e una corazza di maglia, e su questa una tunica bianca, nella quale, davanti e di dietro, era intessuta una grande croce rossa.
Matteo
Matteo
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