giovedì 20 novembre 2014

Hegel: Naturalizzazione e snaturalizzazione nel destino del popolo ebraico

La stessa vertiginosa dialettica tra naturalizzazione e snaturalizzazione possiamo trovarla
nella lunga splendida descrizione della figura di Abramo che costituisce il fulcro e il cuore
del capitolo sul giudaismo. L’intera vita di Abramo viene caratterizzata attraverso la sua
separazione dalla terra natale, attraverso il suo deliberato sradicamento. Abramo, fin
dall’inizio, rifiuta di affidarsi, in amicizia, alla natura che lo circonda.” Il primo atto con cui
Abramo diviene capostipite di una nazione è una separazione che rompe i legami della
convivenza e dell’amore, la totalità delle relazioni in cui egli ha vissuto finora con gli omini e
con la natura “ (6) Tra egli e il mondo si è da sempre frapposta una barriera, un’invalicabile
linea di frattura che nessun rapporto d’amore può superare. Abramo non mette radici in
nessun posto perché mettere radici significherebbe affidarsi al terreno, lasciarsi sostenere e
nutrire da esso; ma è proprio questa fiducia che Abramo, fin dall’inizio, rifiuta. Il nutrimento
e la sicurezza della sua esistenza, non sono per lui doni naturali, per cui rendere grazie alla
terra che li elargisce, ma conquiste di cui appropriarsi dopo una lunga lotta con gli elementi
ostili; solo ciò che è strappato e conquistato può dirsi permanentemente assicurato. Così la
storia di Abramo comincia con un radicale atto di separazione e di rinuncia alla sua terra
natale, alla vita e alla felicità naturale che essa gli offre. Abramo si fabbricherà da sé il suo
destino e tutto ciò che potrà dire suo non sarà un dono della natura ma una conquista
dell’uomo. Il luogo della sua esistenza non potrà che essere il deserto, il luogo cioè in cui
l’uomo, solo di fronte ad una smisurata immensità ostile non ha altri su cui fare
affidamento che se stesso. Se per Noè l’ostilità verso la natura e il tentativo di dominarla costituivano la reazione ad una catastrofe, per Abramo si tratta di una scelta esplicita. Noè
è in qualche modo costretto a combattere l’immensità del diluvio, Abramo sceglie di
combattere l’immensità del deserto. La sua lotta spietata e disperata con la natura è l’altra
faccia del suo progetto di autodeterminazione radicale, il rischio, che egli continuamente
corre di perdere ogni bene e la stessa vita, è il frutto della sua convinzione che solo ciò che
è strappato con la forza o con l’astuzia sia veramente al sicuro da ogni pericolo. Il prezzo
che Abramo dovrà pagare sarà la sua completa solitudine. Questa, l’angoscia disperata di
un uomo di fronte al deserto a cui strappare anche la più piccola goccia d’acqua potrà
essere superata e sopportata solo a prezzo di una sottomissione più radicale e definitiva di
quella ad un qualunque essere naturale. Per non essere annientato dalla sua solitudine,
infatti, Abramo non avrà altra scelta che sdoppiarla, duplicando la sua solitudine di uomo di
fronte ad un immenso deserto nella maestosa e sublime solitudine di Dio di fronte all’intero
mondo creato. Il suo monologo si trasforma in un dialogo terribile, la sua purezza disperata
che non tollerava gratitudine e benevolenza verso un qualunque vivente suo simile,
presente in carne o scolpito in pietra, offre incondizionata obbedienza al suo omologo nel
regno dei cieli, ad un Dio altrettanto puro e altrettanto orgoglioso.” In quanto Abramo non
poteva realizzare da sé la padronanza sul mondo, il solo rapporto per lui possibile con il
mondo infinito e contrapposto, questo rimaneva in cessione al suo ideale; e giacché la sua
divinità aveva alla sua radice il disprezzo per tutto il mondo, così egli restava .l’unico
favorito.”(7) Come Abramo aveva rifiutato ogni rapporto di amicizia col mondo nella
convinzione che solo di fronte al deserto l’uomo può afferrare se stesso così il suo Dio
trasforma, distanziandola da sé, ogni cosa in sconfinata e turbinante materia: tutto il
 mondo ai suoi piedi diventa un deserto. Disdegnando di servire ad un uomo o ad un idolo,
l’orgoglio di Abramo ha accettato di umiliarsi all’immenso orgoglio e all’immensa gelosia del
suo Dio in cui, in fondo, egli non vede che uno specchio ingrandito del suo stesso orgoglio e
della sua stessa gelosia.” Egli era un forestiero sulla terra( ) Uomo indipendente e sciolto da
ogni legame statale o da ogni altro scopo, la cosa suprema era per lui la sua esistenza, della
quale era spesso preoccupato, e doveva esserlo già per il suo stesso modo del tutto privato
ed isolato; Abramo se ne stette assolutamente da sé, e dovette anche avere un Dio tutto per sé che lo guidasse e lo sostenesse. “ (8) Servire il suo Dio è un modo distorto di servire
se stesso. L’umiliarsi di Abramo rappresenta una forma mediata e raffinata di esaltazione. Il
Dio di Abramo dimostra di essere abissalmente legato alle più intime profondità del suo
essere, garantendogli l’unica eternità che egli può sperare, l’unica immortalità a cui egli può
aspirare: quella della discendenza e della stirpe. Non quindi l’opera immortale della mano,
ma l’oscura e ancestrale continuità del sangue, la nuda duplicazione della sua esistenza
sono tutto ciò che Abramo può strappare alla morte. Nonostante tutto, però, il volto di suo
figlio non è identico al suo: Isacco non è Abramo. Proprio per questo il Dio di Abramo
pretenderà Isacco in olocausto; e Abramo potrà godere di suo figlio e della sua discendenza
solo perché è stato disposto a sacrificarli al suo Dio e cioè, in ultima istanza, alla pura
vuotezza del suo io. Hegel, infatti, sottintende che il massimo dell’umiltà è identico al
massimo della superbia. Il sacrificio del bene più amato è indissolubilmente distruzione e
riconferma di se stessi. Sul monte Tabor Isacco è sacrificato a suo padre non meno che al
suo Dio.
La figura di Abramo e la radicale coerenza della sua vita e del suo destino sono per Hegel la
chiave per comprendere la storia e il destino dell’intero popolo ebraico e se, come abbiamo
visto, l’interpretazione del destino ebraico è essenziale per l’intera architettura dello Spirito
del Cristianesimo non stupisce che, nello scolpire con tratti potenti il destino del Patriarca, il
concetto di natura giochi un ruolo decisivo. Il rapporto di Abramo con la natura è, come
abbiamo già visto, inestricabilmente intrecciato con il suo rapporto con la divinità. La scelta
originaria di Abramo, da cui il suo destino e quello del suo popolo ricevano un contrassegno
indelebile è, nello stesso tempo un atto di inimicizia per la natura e di sottomissione a Dio. ”
Il mondo intero era per lui senz’altro l’opposto; e se non poteva divenire un nulla, era
perché aveva il suo sostegno nel Dio ad esso estraneo, di cui niente nella natura poteva
aver parte ma da cui tutto era dominato. Anche Abramo, l’altro termine dell’opposizione
con il mondo che non avrebbe potuto essere nulla di più che l’opposto, era tenuto in essere
da Dio; solo per mezzo di Dio entrava in relazione immediata con il mondo, unico genere di
legame a lui possibile. Il suo ideale gli assoggettava il mondo e gli offriva di esso tanto
quanto gli abbisognava, ponendolo verso il resto in uno stato di sicurezza.”(9) La rottura di
ogni rapporto di amicizia col mondo, la solitudine di fronte ad una natura ridotta a deserto
e la sottomissione a Dio, sono i tre aspetti indisgiungibili del destino di Abramo.
Ora, è proprio rispetto a questo rapporto con la natura che, come nel caso di Noè, si
manifestano i punti di frattura e le aporie intrinseche del discorso hegeliano: punti di
frattura che si riverberano su tutta l’opera. Letta alla luce di queste aporie sottili, che
attraversano l’intera trattazione, la figura di Abramo appare come caratterizzata da una
 paradossale e vertiginosa coincidentia oppositorum che apre una faglia problematica sotto
tutte le distinzioni concettuali su cui è basata la struttura dello Spirito.
La scelta del nomadismo da parte del Patriarca è motivata dalla sua diffidenza ontologica,
dal suo rifiuto di qualunque accordo, di qualunque scambio reciproco fra uomo e natura;
tale scelta, tuttavia, comporta l’ esposizione alla natura stessa e alle sue forze che si
converte inesorabilmente in una lotta selvaggia e furiosa con esse. Rabdomante, orgoglioso
e instancabile, Abramo dipende dal deserto nello stesso momento in cui ne forza e ne
profana la superficie sabbiosa. Rifiutando ogni reciprocità e ogni rapporto paritario con la
natura, Abramo sarà alternativamente suo schiavo e suo profanatore. La sua disperata
ricerca deve seguire la natura per dominarla e dominarla solo lasciandosene trasportare. La
disperata astuzia del nomade, a volta a volta schiavo e padrone del deserto che lo sovrasta,
è il risultato paradossale del radicale antinaturalismo di Abramo. Tale paradossale
naturalizzazione-snaturalizzazione è approfondita e ulteriormente complicata, da Hegel, in
uno dei frammenti coevi allo Spirito del giudaismo. Qui in un passo di straordinaria densità
e complessità, Hegel scrive che ”Abramo era cresciuto nell’uniforme godimento che non lo
chiamava a nessuna lotta con la natura indocile per dominarla e soggiogarla, che non
richiedeva sforzo di acquisizione né lo seduceva ad una molteplicità dispersiva. La
separazione dalla sua patria e dalla casa paterna lo spinse alla riflessione, ma non alla
riflessione su se stesso, non alla ricerca in se stesso di una forza con cui opporsi agli oggetti;
egli era bensì uscito dall’unità, ma con ciò aveva solo cambiato il genere di vita, non si era
separato dal godimento. ” (10) In sostanza sembra che la dimensione rifiutata da Abramo sia quella del lavoro regolato. Nel lavoro, infatti, si configura uno scambio simmetrico e quindi in qualche modo armonico tra l’uomo e il mondo. Nel lavoro l’uomo e la natura si
riconoscono in qualche modo come dotati di uguale forza ed è proprio per questo che
Abramo ne rifiuta completamente la logica. Meglio essere schiavo o nemico di una natura
ostile che il suo paziente elaboratore. Meglio l’astuzia disperata del rabdomante che quella
paziente dell’artigiano.
Ora, questo rifiuto dello scambio armonico con la natura ha un suo decisivo portato
teoretico. Il lavoro, proprio perché paziente tecnica della simmetria, concerne sempre il
rapporto di un singolo uomo determinato con un singolo e altrettanto determinato aspetto
della natura. Nel lavoro sono sempre in gioco da una parte e dall’altra delle individualità
determinate. Il suo rifiuto da parte di Abramo implica, così, l’ universalizzazione tanto di se
stesso quanto del suo oggetto ”Sciolto dalla sua famiglia e dal suo genere di vita, il suo
istinto di conservazione pervenne ora all’indeterminatezza; l’oggetto del suo impulso alla
sicurezza dell’esistenza era la sua conservazione. Un oggetto più alto e più grande non lo si
vede mai nella sua vita; la sua fede nella divinità era una ferma fiducia nel permanere di
questa unità fra tutti i mutamenti della molteplicità delle situazioni” (11) Rifiutando di essere costretto e disciplinato e di costringere e disciplinare un singolo aspetto della natura, egli è messo di contro alla immensità della natura stessa. Rifiutando di coltivare una terra
determinata, egli dovrà convivere con la vuota immensità del deserto. Rifiutando di essere
ingabbiato nella svariata determinatezza dei molteplici scopi umani, sarà messo di fronte
all’unico scopo della sua mera sopravvivenza biologica. In sintesi, il rifiuto dell’amicizia con
la natura – che è sempre amicizia verso un aspetto determinato di essa – porta Abramo ad
una naturalizzazione esasperata tanto di se stesso, ridotto a nuda vita preoccupata della
 sua semplice esistenza biologica, quanto del suo oggetto, un immenso deserto in cui le
forze della natura si esprimono e si mostrano in tutta la loro furia selvaggia. Come abbiamo
visto, questa snaturalizzazione-naturalizzazione costituisce la genealogia segreta della
teologia di Abramo. Il suo Dio invisibile non è, infatti, altro che la proiezione del suo vuoto
istinto di sopravvivenza, la purezza del suo spirito non è che la proiezione distorta e
ingrandita della nuda vita dell’uomo solo di fronte al deserto. ” La sua unità era la sicurezza,
la sua molteplicità erano le contrastanti situazioni di essa, il suo Altissimo era l’unificazione
dell’una e delle altre.” (12) Il Dio di Abramo domina la materia ed è ad essa radicalmente
estraneo come la natura è estranea e sottomessa all’istinto di conservazione di Abramo. La
stessa esistenza dell’Altissimo si rivela strumento di questa sopravvivenza. Dio permette ad
Abramo quel dominio sul mondo che le sue sole forze non gli avrebbero permesso; su quel
mondo con cui, d’altra parte, egli non poteva realizzare un patto di amicizia. Proiezione,
tuttavia, non significa identificazione. In cambio della garanzia del dominio totale sul
mondo, il Dio di Abramo pretende dal suo protetto una sottomissione altrettanto totale.
Signore della natura solo perché schiavo del suo Dio, Abramo abbandona il mondo stanziale
del lavoro regolato e della terra coltivata per gettarsi nel vasto deserto della signoria e della

servitù. 

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