giovedì 20 novembre 2014

Hegel: Il destino storico-politico del popolo ebraico


La figura di Abramo diventa, per Hegel, paradigma e figura dell’intero suo popolo. I tratti
caratteristici del grande patriarca si rifrangeranno su tutta la storia del popolo ebraico che
risulterà caratterizzata dalla sua stessa snaturalizzazione desertica, dalla sua stessa radicale
inimicizia col mondo.
Questo rapporto strutturale tra gli Ebrei e il deserto verrà confermato non solo dalla grande
prova dell’esodo con la sua traversata, ma anche paradossalmente dalla stabilizzazione
definitiva del popolo di Israele nella terra di Canaan. Come alla precedente vita stanziale in
Egitto gli Ebrei avevano preferito il rischio e il passaggio attraverso un nomadismo
quarantennale, così adesso, definitivamente stabilitisi nella terra promessa, il rapporto col
deserto si farà sentire come tratto essenziale e ineliminabile della loro relazione col mondo
e del loro destino storico-politico

Hegel: Naturalizzazione e snaturalizzazione nel destino del popolo ebraico

La stessa vertiginosa dialettica tra naturalizzazione e snaturalizzazione possiamo trovarla
nella lunga splendida descrizione della figura di Abramo che costituisce il fulcro e il cuore
del capitolo sul giudaismo. L’intera vita di Abramo viene caratterizzata attraverso la sua
separazione dalla terra natale, attraverso il suo deliberato sradicamento. Abramo, fin
dall’inizio, rifiuta di affidarsi, in amicizia, alla natura che lo circonda.” Il primo atto con cui
Abramo diviene capostipite di una nazione è una separazione che rompe i legami della
convivenza e dell’amore, la totalità delle relazioni in cui egli ha vissuto finora con gli omini e
con la natura “ (6) Tra egli e il mondo si è da sempre frapposta una barriera, un’invalicabile
linea di frattura che nessun rapporto d’amore può superare. Abramo non mette radici in
nessun posto perché mettere radici significherebbe affidarsi al terreno, lasciarsi sostenere e
nutrire da esso; ma è proprio questa fiducia che Abramo, fin dall’inizio, rifiuta. Il nutrimento
e la sicurezza della sua esistenza, non sono per lui doni naturali, per cui rendere grazie alla
terra che li elargisce, ma conquiste di cui appropriarsi dopo una lunga lotta con gli elementi
ostili; solo ciò che è strappato e conquistato può dirsi permanentemente assicurato. Così la
storia di Abramo comincia con un radicale atto di separazione e di rinuncia alla sua terra
natale, alla vita e alla felicità naturale che essa gli offre. Abramo si fabbricherà da sé il suo
destino e tutto ciò che potrà dire suo non sarà un dono della natura ma una conquista
dell’uomo. Il luogo della sua esistenza non potrà che essere il deserto, il luogo cioè in cui
l’uomo, solo di fronte ad una smisurata immensità ostile non ha altri su cui fare
affidamento che se stesso. Se per Noè l’ostilità verso la natura e il tentativo di dominarla costituivano la reazione ad una catastrofe, per Abramo si tratta di una scelta esplicita. Noè
è in qualche modo costretto a combattere l’immensità del diluvio, Abramo sceglie di
combattere l’immensità del deserto. La sua lotta spietata e disperata con la natura è l’altra
faccia del suo progetto di autodeterminazione radicale, il rischio, che egli continuamente
corre di perdere ogni bene e la stessa vita, è il frutto della sua convinzione che solo ciò che
è strappato con la forza o con l’astuzia sia veramente al sicuro da ogni pericolo. Il prezzo
che Abramo dovrà pagare sarà la sua completa solitudine. Questa, l’angoscia disperata di
un uomo di fronte al deserto a cui strappare anche la più piccola goccia d’acqua potrà
essere superata e sopportata solo a prezzo di una sottomissione più radicale e definitiva di
quella ad un qualunque essere naturale. Per non essere annientato dalla sua solitudine,
infatti, Abramo non avrà altra scelta che sdoppiarla, duplicando la sua solitudine di uomo di
fronte ad un immenso deserto nella maestosa e sublime solitudine di Dio di fronte all’intero
mondo creato. Il suo monologo si trasforma in un dialogo terribile, la sua purezza disperata
che non tollerava gratitudine e benevolenza verso un qualunque vivente suo simile,
presente in carne o scolpito in pietra, offre incondizionata obbedienza al suo omologo nel
regno dei cieli, ad un Dio altrettanto puro e altrettanto orgoglioso.” In quanto Abramo non
poteva realizzare da sé la padronanza sul mondo, il solo rapporto per lui possibile con il
mondo infinito e contrapposto, questo rimaneva in cessione al suo ideale; e giacché la sua
divinità aveva alla sua radice il disprezzo per tutto il mondo, così egli restava .l’unico
favorito.”(7) Come Abramo aveva rifiutato ogni rapporto di amicizia col mondo nella
convinzione che solo di fronte al deserto l’uomo può afferrare se stesso così il suo Dio
trasforma, distanziandola da sé, ogni cosa in sconfinata e turbinante materia: tutto il
 mondo ai suoi piedi diventa un deserto. Disdegnando di servire ad un uomo o ad un idolo,
l’orgoglio di Abramo ha accettato di umiliarsi all’immenso orgoglio e all’immensa gelosia del
suo Dio in cui, in fondo, egli non vede che uno specchio ingrandito del suo stesso orgoglio e
della sua stessa gelosia.” Egli era un forestiero sulla terra( ) Uomo indipendente e sciolto da
ogni legame statale o da ogni altro scopo, la cosa suprema era per lui la sua esistenza, della
quale era spesso preoccupato, e doveva esserlo già per il suo stesso modo del tutto privato
ed isolato; Abramo se ne stette assolutamente da sé, e dovette anche avere un Dio tutto per sé che lo guidasse e lo sostenesse. “ (8) Servire il suo Dio è un modo distorto di servire
se stesso. L’umiliarsi di Abramo rappresenta una forma mediata e raffinata di esaltazione. Il
Dio di Abramo dimostra di essere abissalmente legato alle più intime profondità del suo
essere, garantendogli l’unica eternità che egli può sperare, l’unica immortalità a cui egli può
aspirare: quella della discendenza e della stirpe. Non quindi l’opera immortale della mano,
ma l’oscura e ancestrale continuità del sangue, la nuda duplicazione della sua esistenza
sono tutto ciò che Abramo può strappare alla morte. Nonostante tutto, però, il volto di suo
figlio non è identico al suo: Isacco non è Abramo. Proprio per questo il Dio di Abramo
pretenderà Isacco in olocausto; e Abramo potrà godere di suo figlio e della sua discendenza
solo perché è stato disposto a sacrificarli al suo Dio e cioè, in ultima istanza, alla pura
vuotezza del suo io. Hegel, infatti, sottintende che il massimo dell’umiltà è identico al
massimo della superbia. Il sacrificio del bene più amato è indissolubilmente distruzione e
riconferma di se stessi. Sul monte Tabor Isacco è sacrificato a suo padre non meno che al
suo Dio.
La figura di Abramo e la radicale coerenza della sua vita e del suo destino sono per Hegel la
chiave per comprendere la storia e il destino dell’intero popolo ebraico e se, come abbiamo
visto, l’interpretazione del destino ebraico è essenziale per l’intera architettura dello Spirito
del Cristianesimo non stupisce che, nello scolpire con tratti potenti il destino del Patriarca, il
concetto di natura giochi un ruolo decisivo. Il rapporto di Abramo con la natura è, come
abbiamo già visto, inestricabilmente intrecciato con il suo rapporto con la divinità. La scelta
originaria di Abramo, da cui il suo destino e quello del suo popolo ricevano un contrassegno
indelebile è, nello stesso tempo un atto di inimicizia per la natura e di sottomissione a Dio. ”
Il mondo intero era per lui senz’altro l’opposto; e se non poteva divenire un nulla, era
perché aveva il suo sostegno nel Dio ad esso estraneo, di cui niente nella natura poteva
aver parte ma da cui tutto era dominato. Anche Abramo, l’altro termine dell’opposizione
con il mondo che non avrebbe potuto essere nulla di più che l’opposto, era tenuto in essere
da Dio; solo per mezzo di Dio entrava in relazione immediata con il mondo, unico genere di
legame a lui possibile. Il suo ideale gli assoggettava il mondo e gli offriva di esso tanto
quanto gli abbisognava, ponendolo verso il resto in uno stato di sicurezza.”(9) La rottura di
ogni rapporto di amicizia col mondo, la solitudine di fronte ad una natura ridotta a deserto
e la sottomissione a Dio, sono i tre aspetti indisgiungibili del destino di Abramo.
Ora, è proprio rispetto a questo rapporto con la natura che, come nel caso di Noè, si
manifestano i punti di frattura e le aporie intrinseche del discorso hegeliano: punti di
frattura che si riverberano su tutta l’opera. Letta alla luce di queste aporie sottili, che
attraversano l’intera trattazione, la figura di Abramo appare come caratterizzata da una
 paradossale e vertiginosa coincidentia oppositorum che apre una faglia problematica sotto
tutte le distinzioni concettuali su cui è basata la struttura dello Spirito.
La scelta del nomadismo da parte del Patriarca è motivata dalla sua diffidenza ontologica,
dal suo rifiuto di qualunque accordo, di qualunque scambio reciproco fra uomo e natura;
tale scelta, tuttavia, comporta l’ esposizione alla natura stessa e alle sue forze che si
converte inesorabilmente in una lotta selvaggia e furiosa con esse. Rabdomante, orgoglioso
e instancabile, Abramo dipende dal deserto nello stesso momento in cui ne forza e ne
profana la superficie sabbiosa. Rifiutando ogni reciprocità e ogni rapporto paritario con la
natura, Abramo sarà alternativamente suo schiavo e suo profanatore. La sua disperata
ricerca deve seguire la natura per dominarla e dominarla solo lasciandosene trasportare. La
disperata astuzia del nomade, a volta a volta schiavo e padrone del deserto che lo sovrasta,
è il risultato paradossale del radicale antinaturalismo di Abramo. Tale paradossale
naturalizzazione-snaturalizzazione è approfondita e ulteriormente complicata, da Hegel, in
uno dei frammenti coevi allo Spirito del giudaismo. Qui in un passo di straordinaria densità
e complessità, Hegel scrive che ”Abramo era cresciuto nell’uniforme godimento che non lo
chiamava a nessuna lotta con la natura indocile per dominarla e soggiogarla, che non
richiedeva sforzo di acquisizione né lo seduceva ad una molteplicità dispersiva. La
separazione dalla sua patria e dalla casa paterna lo spinse alla riflessione, ma non alla
riflessione su se stesso, non alla ricerca in se stesso di una forza con cui opporsi agli oggetti;
egli era bensì uscito dall’unità, ma con ciò aveva solo cambiato il genere di vita, non si era
separato dal godimento. ” (10) In sostanza sembra che la dimensione rifiutata da Abramo sia quella del lavoro regolato. Nel lavoro, infatti, si configura uno scambio simmetrico e quindi in qualche modo armonico tra l’uomo e il mondo. Nel lavoro l’uomo e la natura si
riconoscono in qualche modo come dotati di uguale forza ed è proprio per questo che
Abramo ne rifiuta completamente la logica. Meglio essere schiavo o nemico di una natura
ostile che il suo paziente elaboratore. Meglio l’astuzia disperata del rabdomante che quella
paziente dell’artigiano.
Ora, questo rifiuto dello scambio armonico con la natura ha un suo decisivo portato
teoretico. Il lavoro, proprio perché paziente tecnica della simmetria, concerne sempre il
rapporto di un singolo uomo determinato con un singolo e altrettanto determinato aspetto
della natura. Nel lavoro sono sempre in gioco da una parte e dall’altra delle individualità
determinate. Il suo rifiuto da parte di Abramo implica, così, l’ universalizzazione tanto di se
stesso quanto del suo oggetto ”Sciolto dalla sua famiglia e dal suo genere di vita, il suo
istinto di conservazione pervenne ora all’indeterminatezza; l’oggetto del suo impulso alla
sicurezza dell’esistenza era la sua conservazione. Un oggetto più alto e più grande non lo si
vede mai nella sua vita; la sua fede nella divinità era una ferma fiducia nel permanere di
questa unità fra tutti i mutamenti della molteplicità delle situazioni” (11) Rifiutando di essere costretto e disciplinato e di costringere e disciplinare un singolo aspetto della natura, egli è messo di contro alla immensità della natura stessa. Rifiutando di coltivare una terra
determinata, egli dovrà convivere con la vuota immensità del deserto. Rifiutando di essere
ingabbiato nella svariata determinatezza dei molteplici scopi umani, sarà messo di fronte
all’unico scopo della sua mera sopravvivenza biologica. In sintesi, il rifiuto dell’amicizia con
la natura – che è sempre amicizia verso un aspetto determinato di essa – porta Abramo ad
una naturalizzazione esasperata tanto di se stesso, ridotto a nuda vita preoccupata della
 sua semplice esistenza biologica, quanto del suo oggetto, un immenso deserto in cui le
forze della natura si esprimono e si mostrano in tutta la loro furia selvaggia. Come abbiamo
visto, questa snaturalizzazione-naturalizzazione costituisce la genealogia segreta della
teologia di Abramo. Il suo Dio invisibile non è, infatti, altro che la proiezione del suo vuoto
istinto di sopravvivenza, la purezza del suo spirito non è che la proiezione distorta e
ingrandita della nuda vita dell’uomo solo di fronte al deserto. ” La sua unità era la sicurezza,
la sua molteplicità erano le contrastanti situazioni di essa, il suo Altissimo era l’unificazione
dell’una e delle altre.” (12) Il Dio di Abramo domina la materia ed è ad essa radicalmente
estraneo come la natura è estranea e sottomessa all’istinto di conservazione di Abramo. La
stessa esistenza dell’Altissimo si rivela strumento di questa sopravvivenza. Dio permette ad
Abramo quel dominio sul mondo che le sue sole forze non gli avrebbero permesso; su quel
mondo con cui, d’altra parte, egli non poteva realizzare un patto di amicizia. Proiezione,
tuttavia, non significa identificazione. In cambio della garanzia del dominio totale sul
mondo, il Dio di Abramo pretende dal suo protetto una sottomissione altrettanto totale.
Signore della natura solo perché schiavo del suo Dio, Abramo abbandona il mondo stanziale
del lavoro regolato e della terra coltivata per gettarsi nel vasto deserto della signoria e della

servitù. 

"Hegel", Lucio Battisti


Ricordo il suo bel nome: Hegel Tubinga
ed io avrei masticato
la sua tuta da ginnastica.

La storia va avanti ricordando i suoi anni trascorsi all'Università di Tubinga. Il giovane Hegel si iscrive nel 1788 per studiarvi teologia, dividendo il suo alloggio con Holderlin e Schelling, ossia rispettivamente uno dei più grandi poeti della Germania e di un altrettanto grande filosofo. **

Il nome se lo prese in PRESTITO dai libri
e fu come copiare di nascosto,
fu come soffiare sul fuoco.

Come le celebri lezioni di Hegel, docente alla cattedra universitaria di Berlino, raccolte e trascritte segretamente dai suoi ex allievi. Sta di fatto che quella che noi chiamiamo Estetica è la rielaborazione di un discepolo ( Hotho ) basata sugli appunti raccolti dalla viva voce di Hegel, ma anche con delle aggiunte ritenute necessarie per rendere leggibili quelle pagine. Il trattato venne dato alle stampe da Gustav Hotho nel 1835, solo dopo la morte del grande filosofo.

Cataste scolastiche: perché?
Quando tutto è perduto non resta che la cenere e l'amore;
e lei nel suo bel nome era una Jena.

Jena è ancor oggi una piccola città della Germania dell'Est, molto bella e moderna, concentrata tipicamente per studenti universitari. Hegel per ottenere l'abilitazione all'insegnamento, vi soggiornò per un lungo periodo, dal 1801 al 1807. Fu qui, che conobbe l'unico amore della sua vita, Charlotte, sua affittacamere e governante, dalla quale ebbe un figlio. Ma il drammatico susseguirsi degli eventi politico-militari, fecero ben presto precipitare la situazione: le inarrestabili guarnigioni napoleoniche avevano preso il cuore della città, piegando il fiero orgoglio teutonico. Sotto il fuoco delle armi, Hegel fu costretto ad abbandonare il tetto dell'amata per riparare altrove.

Chi di noi il governato e chi il governatore
son fatti che attengono alla storia.
Chi fosse la provincia e chi l'impero

"La Fenomenologia dello Spirito" è una tra le opere più importanti nella storia della filosofia moderna classica. Nella descrizione del processo che porta il soggetto verso la verità, Hegel illustra le due celebri figure del servo e del padrone, secondo il quale, il padrone, una volta raggiunto il suo scopo, non ha più bisogno di affermarsi, mentre lo schiavo deve autoaffermarsi molto lentamente attraverso il proprio lavoro. Il padrone però, non riuscirà più a fare a meno del servo, il quale costruisce gli oggetti di cui egli ha bisogno. Dunque la subordinazione si rovescia. Il ribaltamento dialettico hegeliano trova una sua perfetta sintesi nella teoria che anche il padrone è servo e anche il servo è padrone. Ma in queste frasi sibilline di Panella, sembra celarsi allo stesso tempo il triste epilogo: anche la Prussia come tutta l'Europa dovette inchinarsi allo strapotere di Napoleone.

Erano gli esercizi obbligatori estetici,
le occhiate di traverso, e tu guardavi indietro;
c'eravamo capiti, capiti all'inverso.

Si torna ancora a citare l'opera di Hegel con le lezioni di estetica e le varie visioni del mondo, ma nello stesso tempo della conoscenza sulla funzione insopprimibile della contraddizione come legge di sviluppo della realtà, e non come semplice negazione. La logica hegeliana si contrappone alla logica tradizionale, fondata sul principio di identità e di non contraddizione. Il grande filosofo mette in discussione il principio di non contraddizione tra due poli., secondo il quale la possibilità che una cosa si muti in una cosa diversa, risiede proprio all'interno della cosa stessa. All'interno delle cose esiste questo rapporto di contraddizione tra lo yin e lo yang. Lo yin e lo yang sono uniti ed al tempo stesso in lotta. La teoria hegeliana, per conseguire l'unità di opposti, si basa sulla convinzione dell'uno bisognoso dell'altro per realizzarsi: da ciò consegue che la realtà si attua in un processo dove termini opposti si negano reciprocamente e si integrano in una nuova e più ricca unità.*

Ci diventammo leciti per questo.
D'altronde, d'altro canto.
A volte essere nemici facilita.
Piacersi è così inutile.

Un "opposto", è tale in quanto non è solo se stesso, ma allo stesso tempo altro: A è non A e viceversa. La conclusione di Hegel è che il negativo è insieme anche postivo e tutte le cose sono in se stesse contradditorie.**

Un bacio dai bei modi grossolani
sfuggì come uno schiaffo senza mani.

Un bacio non dura che un istante ma il suo significato è infinito. Simbolicamente rappresenta un incontro tra gli opposti, e ci offre l'opportunità di affrontare e riconoscere l'altro in quanto altro. E' l'inizio del superamento conflittuale, in cui cominciamo la scoprire la natura profonda e familiare del Sé, attraverso il confronto e il riconoscimento dell'Altro.*

Talmente presi ci si rese conto
d'essere un'allegoria soltanto quando
ci capitò di dire, indicando il soffitto col naso,
di dire "Noi due" e ci marmorizzammo.

Una metafora sulla difficoltà comunicativa tra due opposti - come qui si potrebbe arguire - è sottintesa nell'opera di rinnovamento compiuta da Battisti e Panella, e che il fruitore non sembra accettare assolutamente. Di fronte a questo ermetismo il grosso del pubblico si è rifiutato di varcare la fatidica soglia, non ha capito la portata innovativa introdotta dai due artisti. Davanti a questo scoglio di non ricezione l'armonia degli opposti è venuta meno, non si è verificato un' ideale sintonia tra le parti. I due poli si sono quindi pietrificati, l'uno di fronte all'altro, come una allegorica visione di stalattiti e stalagmiti negli anfratti di una grotta.

La corda tesa, amò l'arco
e la tempesta la schiuma,
il cuore amò se stesso,
ma noi non divagammo.

L'armonia è la sintesi perfetta indispensabile per creare l'unità nella diversità e arrivare al nostro vero essere. Eraclito sosteneva: gli ignoranti non sanno che ciò che è differente, concorda con noi stessi, dato che l'armonia dei contrari equivale all'armonia dell'arco e della lira. La bellezza è come un fulmine, la bellezza è tensione, è il mantenimento degli opposti. L'arco e la lira sono stati visti da Eraclito come esempi di un equilibrio di forze che proprio la loro opposizione tiene insieme: un arco funziona fin tanto che la struttura data dal contrasto e dalla tensione degli opposti regge. Il pensiero di Hegel si accosta ad Eraclito per quanto riguarda la visione dell’armonia dei contrari : non c'è tempesta senza quiete, non c'è vita senza morte, non c'è bianco senza nero...

L'animo umano è nulla se non
una pietra da scalfire ricavando
i capelli e il suo bel piede.

Il carattere peculiare della filosofia hegeliana fu quello di affermare la razionalità della storia. Mentre l'eredità del pensiero greco fu quella di cogliere la ragione nella natura, Hegel ha cercato di riconoscere la stessa razionalità anche nel campo della storia. La sua tesi fu che anche nella storia dell'uomo, dove nell'apparente caos delle vicende umane, si manifesta una razionalità analoga a quella presente nella natura.*

Era la collisione, il primo scontro epico,
perché non scritto ma cavalcato a pelo,
ed ognuno esigeva
la terra dell'altro,
le mani, la terra, la carne, il terreno.

Il rombo dei cannoni coincise con la stesura finale della Fenomenologia dello Spirito. Il giorno prima della carneficina di Jena del 14 ottobre 1806 - una battaglia epocale che costò un numero spaventoso di vite - Hegel si confida privatamente, con una lettera indirizzata all'amico Niethammer, di aver visto sfilare per le vie della città, quel Napoleone a cavallo, da lui considerato come il "punto" in cui si concentra " l'anima del mondo" che "s'irradia per il mondo e lo domina", ovvero colui che doveva reggere il mondo, colui che rovesciando il vecchio, doveva regolare il nuovo, promulgando costituzioni e codici legislativi. Ma si sbagliava.
Da lì a poco, il 10 dicembre 1812, in una gelida giornata d'inverno, Napoleone giunse in slitta a Varsavia con 10.000 uomini dalle divise lacere ed in preda alla fame. Era quello che rimaneva dei 600.000 dell'invincibile armata e l'inizio della sua inarrestabile caduta. L'epopea di Napoleone segnò una profonda inquietudine intellettuale in Europa. Non è dunque eccessivo dire che ancor oggi la storiografia risente di quell'evento epocale e di quel mito. Il destino però si diverte alle spalle degli uomini, è sempre in agguato, bastava un niente per cambiare il corso della storia. Se Bonaparte non avesse intrapreso la campagna di Russia, probabilmente il mondo oggi non sarebbe questo. Tutto passa, passano le guerre, ritornano al trono monarchi e presidenti, passano le mode, tutto cambia, tutto ... tranne la canzonetta ! Lei no, è rimasta immutata nel corso dei secoli, sempre uguale a se stessa. Davanti alle spallate messe in atto nella storia per demolire il suo mito presso gli uomini, ne è sempre uscita indenne.

P.Panella: "Il pubblico si è si è ridotto a cercare un senso, cioè se l'hanno derubato sul peso. C'è chi dice " mi hanno derubato perchè non capisco ".
Ma cosa vogliono capire ? Che la vita è difficile, che l'amore fa soffrire ? Vogliono capire quello che sanno già. Sono cambiate tante cose, governi tremendi ci sono passati attraverso ma la canzone è sempre rimasta, è la costante, c'è sempre stata, rassicurante e uguale, piena di senso". Hegel è la canzone. E' un pachiderma centrale, mediano, indeciso come la canzone. Hegel è la parola, in lui appare l'apparenza, è già Don Giovanni..."

F.MarchettiUn attacco alla precarietà, al sonno intellettuale della curiosità umana. Il caso Battisti-Panella è stato un esempio di rinuncia comunicativa.Davanti all'ermetismo testuale, il pubblico ha compiuto una " ritirata " dell'ascolto. Non ha oltrepassato lo scoglio iniziale e non è andato oltre.** 

Hegel: "Lineamenti di filosofia del diritto"


Nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto è presente la famosa espressione “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”.La filosofia come sapere epistemico non s'interessa di ciò che è accidentale; essa va al cuore della realtà e trova - come ormai è chiarissimo - soltanto l'Idea, il Pensiero.

G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione

Ciò che è razionale è reale,
Ciò che è reale è razionale.

Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell'universo spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento o, qualsiasi aspetto assuma, la coscienza soggettiva riguarda il presente come cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, essa allora si ritrova nel vuoto; e, poiché soltanto nel presente v'è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa, l'idea passa per essere soltanto un'idea, una rappresentazione in un'opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l'idea. Si tratta allora di riconoscere, nell'apparenza del temporaneo, e del transitorio, la sostanza che è immanente e l'eterno che è attuale. Invero, il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell'esistenza esterna, si presenta in un'infinita ricchezza di forme, fenomeni e aspetti; e circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per sentirlo appunto ancora palpitante nelle forme esterne. Ma i rapporti infinitamente vari, che si formano in questa esteriorità con l'apparire dell'essenza in essa, questo materiale infinito e la sua disciplina, non è oggetto della filosofia [...].
Cosí, dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello Stato, dev'essere null'altro, se non il tentativo d'intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev'essere; l'ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere a insegnare allo Stato come deve essere, ma, piuttosto, in qual modo esso deve esser riconosciuto come universo etico.
Del resto, per quel che si riferisce all'individuo, ciascuno è, senz'altro, figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero [...].
Questo, anche, costituisce il significato concreto di quel che sopra è stato designato astrattamente come unità di forma e di contenuto; poiché la forma, nella sua piú concreta significazione, è la ragione, quale conoscenza che intende, e il contenuto è la ragione, quale essenza sostanziale della realtà etica, come della realtà naturale; l'identità cosciente delle due è l'idea filosofica. È una grande ostinatezza (ostinatezza che fa onore all'uomo) non voler riconoscere nei sentimenti nulla che non sia giustificato col pensiero: e questa ostinatezza è la caratteristica dei tempi moderni, oltre che il principio proprio del Protestantesimo. Ciò che Lutero iniziò come credenza nel sentimento e nella testimonianza dello spirito, è la cosa stessa che lo spirito, ulteriormente maturato, s'è sforzato di comprendere nel concetto, e cosí di emanciparsi nel presente e quindi di ritrovarsi in esso. Come è divenuto detto celebre quello che una mezza filosofia allontana da Dio - la medesima superficialità ripone la conoscenza in un'approssimazione alla verità è ma che la vera filosofia conduce a Dio; cosí è lo stesso con lo Stato [...].
Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo VOLO sul far del crepuscolo.

(G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1965, pagg. 14-17)

mercoledì 19 novembre 2014

Sogno di Jung

Era verso sera, e mi appariva un uomo anziano, in uniforme di ufficiale della dogana dell’Impero austriaco. Camminava piuttosto curvo, passandomi innanzi senza fa­re attenzione a me. Aveva un’espressione accigliata un po’ malinconica e annoiata. C’erano anche altre persone, e qualcuno m’informava che non era un uomo in carne e ossa, ma che si trattava dello spettro di un ufficiale di dogana morto anni prima«È uno di quelli che non pote­rono morire veramente» mi dissero. Questa era la prima parte del sogno.Mi trovavo in una città italiana; era circa mezzo­giorno, tra le dodici e l’una, e un sole feroce arroventava le strade strette. La città era costruita su colline, e mi faceva ricordare una particolare zona di Basilea, il Kohlenberg. Le stradine che scendono a valle, nel Birsigtal, attraverso la città, sono parzialmente costituite da rampe di scale. Nel sogno, una scala simile scendeva verso la Barfüsserplatz. La città era Basilea, eppure era anche una città italiana, un po’ simile a Bergamo. Si era d’estate; il sole raggiava allo zenit, e tutto era avvolto in una vivida luce. Mi venivano incontro molte persone, e vedevo che i negozi stavano chiudendo e la gente si avviava verso casa per il pranzo. In mezzo alla fiumana della folla cammi­nava un cavaliere, completamente armato; saliva gli sca­lini, venendo dalla mia parte. Portava un elmo, del tipo detto a bacinella, con fenditure per gli occhi, e una co­razza di maglia, e su questa una tunica bianca, nella quale, davanti e di dietro, era intessuta una grande croce rossa.

Matteo

domenica 9 novembre 2014

Il sogno di Jung da "A Dangerous Method"

SOGNO DI JUNG:



JUNG: Ho fatto un sogno, ho sognato un cavallo che veniva issato con cinghie di cuoio ad un’altezza considerevole. Ad un tratto una cinghia si rompe e il cavallo si schianta a terra, ma non è ferito, balza su e corre via al galoppo appesantito solo da un grosso tronco d’albero che è costretto a trascinare, ma un cavaliere sopra ad un cavallino gli compare davanti e lo costringe a rallentare. Anche una carrozza compare poi davanti al cavallino. Quindi il nostro cavallo è costretto a rallentare ancora di più.

FREUD: Immagino che quel cavallo sia lei.

JUNG: Si

FREUD: La sua ambizione è stata frustata in qualche maniera.

JUNG: Il cavaliere che mi rallenta.

FREUD: Si

JUNG: Credo che possa riferirsi alla prima gravidanza di mia moglie, ho dovuto rinunciare ad una opportunità di andare in America. La carrozza che è davanti potrebbe forse alludere al timore che le nostre due figlie e altri figli che magari arriveranno, mi intralceranno ancor di più il cammino.

FREUD: Come padre di sei figli questo glielo garantisco. Per non parlare delle ovvie difficoltà finanziarie. 

JUNG: No. Per fortuna mia moglie è straordinariamente ricca. 

FREUD: Ah… È davvero una fortuna. ( lunga pausa ). Quel tronco…

JUNG: Si…

FREUD: Dovrebbe prendere in considerazione la possibilità che rappresenti il pene.

JUNG: (pausa) Si… Nel qual caso potrebbe portare alla luce una certa inibizione della sessualità che è stata provocata dal timore di una serie infinita di gravidanze. (scocciato)

FREUD: Sappia che se un mio paziente mi avesse riportato questo sogno gli avrei detto che la quantità di elementi costrittivi che circondano quello sfortunato cavallo, porterebbe a pensare ad una ferma repressione di un forte desiderio sessuale ribelle.


JUNG: Mmh… Si… C’è anche quello.

                                                                                                    Francesco Mariotti